Napoleone Cerino

 
Parlare di Napoleone Cerino per parlare di noi stessi. É questo quello che più mi ha sconvolto del lavoro che Matteo mi ha proposto: la ricerca di una identità meridionale attraverso la storia di uno scultore che non ha lasciato tracce, un artista sconosciuto e, probabilmente, non importante vissuto alla fine del secolo a Napoli, poi scomparso improvvisamente, con un figlio abbandonato all'Albergo dei Poveri, una moglie morta, un viaggio in America, solo probabile, solo una scusa, forse, addotta da Mariannina Morrone, quella che fino a questo momento sembra essere la matrigna cattiva, la strega maligna che ha chiuso il povero Giuseppe nell'albergo. Ma come in tutte le favole Giuseppe ha disseminato il suo cammino di pietre. Pietre attraverso le quali era pos sibile ritrovare la strada percorsa. Novello Pollicino che ci ha portato tra le braccia di Napoleone, del quale oggi possiamo ricostruire i tratti salienti della vita: quando è nato, il matrimonio, la nascita del figlio, la morte.

Una traccia di pietre, quelle stesse pietre che Napoleone sognava di trasformare in parole, in forza espressiva. Attraverso la ricerca di Napoleone abbiamo cercato la ricostruzione di una immagine che non esiste più, l 'immagine di una Napoli, di un Meridione e di una meridionalità. Un'immagine, quella stessa immagine che qui manca: l'immagine di Napoleone, l'immagine di lui attraverso quello che è il suo lavoro.

E queste storie, queste cinque storie, partono da questa immagine che non c'è per raccontare una immagine di noi che anche lei non c'è , che anche lei stiamo cercando di ricostruire, attraverso i percorsi interiori, micro percorsi che sono anche macro. Partire dal nulla insignificante per ritrovare il tutto onnicomprensivo.

Dei cinque io sono il solo non campano. Vengo da Bari, sono «emigrato a Roma», dal Sud verso il Nord come aveva fatto mio nonno, più o meno all'epoca in cui Napoleone moriva. Mio nonno che emigrò nella ricca Bari, anche lui un artigiano, costruiva mobili. Un nonno che è morto quando ero ancora piccolo, di cui riservo solo qualche ricordo, una immagine, appunto, di un uomo che mi assomigliava moltissimo, come mi dicevano tutti, ma vecchio, silenzioso e burbero, con un bastone in mano. E lo ricordo nel negozio che poi è stato ed è ancora di mio padre, un negozio nel quale da bambino andavo a giocare, con uno scantinato pieno di specchi, dove dominava la mia immagina riprodotta mille volte, in giochi che andavano all'infinito. Specchi che riflettevano immagini riflesse, specchi che non erano se stessi quando erano vuoti, ma che «erano» quando io «ero».

Napoleone come mio nonno, quindi, o come mia nonna che, strani giochi del caso, si chiamava Emma Candela, anche lei con il sangue di un'altra terra, nipote di emigrati, ma di un'altra emigrazione, quella colonializzatrice, che scendeva dalla Germania a Bari quando si apriva il Canale di Suez, verso dei mercati ancora tutti da esplorare. Un investimento andato male. Non sempre i gesti di coraggio sono quelli giusti.

Ed è a loro due che ho pensato quando Matteo mi ha raccontato di Napoleone, ed è a loro due che sto pensando adesso, a loro due e a me, anche io emigrato, che per ritrovarli, per ripensarci, sono di nuovo dovuto scendere al Sud, in una città che non amo e che non ho mai amato. Penso a loro, a Napoleone, a tutti gli emigrati, ai Cerino sparsi nel mondo: a Sauver Cerino, che vive a Tunisi e che anche lui cerca di trovare i luoghi da cui proviene, a Fabrizio e a Natale che vivono ad Aosta, Anna e Maria che si trovano a Trieste, le 121 famiglie Cerino che v ivono fra Napoli e la sua provincia, e poi a quelli che sono partiti in navi dai nomi stravaganti: la Elysia che il 19 dicembre 1892 con i suoi 805 passeggeri italiani, attraccò davanti alla Statua della Libertà, e poi la Chateau, la Gascogne, la Iniziativa, con i loro carichi di bambini, mogli e disoccupati.

E penso ancora a me e a Caroline, anche lei scesa dal Nord come i nonni della mia nonna, e penso a Giuseppe, nell'albergo dei poveri, con un padre artista che non si sa più dove sia, e penso a Giuseppe che non c 'è ancora.

Penso cioè a quelle immagini reali, che gli occhi non hanno visto, a quelle immagini che non possono essere ne simulate ne riprodotte, penso al fuoricampo, all'infilmabile, a me critico cinematografico alla disperata ricerca di ciò che l 'occhio non vede.

Leonora Carrington, una artista surrealista, diceva che l'occhio sinistro serve per guardare fuori e quello destro per guardarsi dentro. Il mio occhio destro non vede, dentro ho una protesi di silicone. Per guardarmi dentro devo usare l'occhio sinistro. Per guardarmi dentro devo guardare fuori.

Antonio Pezzuto